Che abbiano un biscotto in mano o una cintura esplosiva in vita, con i bambini il successo di uno spot è assicurato
Ci sono dei riti quotidiani, minuscoli, trascurabili, quando si hanno dei figli, che sembrano gesti meccanici, finchè non smetti di compierli. Finchè i figli non diventano abbastanza grandi da farli da soli e allora ti accorgi che chiudere la cartella, asciugargli i capelli col phon o preparargli la cena, era qualcosa di più di un gesto meccanico. Era prendersi cura di loro. Un giorno vedi tuo figlio infilarsi una maglietta per conto suo e senti una fitta al cuore nel pensare a quando non riusciva a infilare il braccio nella manica e tu gli afferravi la manina per indicargli la strada giusta e magari la testa si incastrava nel collo del maglione troppo stretto. Pensavo a questo, mentre leggevo degli attentati di Boko Haram in Nigeria con le bambine kamikaze. Pensavo che chiunque fossero state queste bambine, magari orfane o figlie di fondamentalisti, qualcuno, la mattina delle stragi, doveva averle aiutate a vestirsi con cura, aveva scelto gli abiti, aveva afferrato le loro manine, stretto quei lacci delle scarpe che si slacciano sempre, abbottonato la camicetta. Poi aveva stretto la cintura esplosiva in vita, mimetizzandola sotto una felpa o uno di quei vestitini larghi senza maniche, che tutte le bambine hanno indossato, e magari le aveva convinte che quella pancia di ferro fosse un’armatura luccicante. Un segreto da grandi, di quelli che i bambini custodiscono fieri, sentendosi investiti di un ruolo importante. E quasi certamente non sospettava neanche un po’, la bimba saltata in aria a Maiduguri, che mentre quell’adulto – forse un parente, forse addirittura la sua mamma – l’aiutava a vestirsi, non si stava affatto prendendo cura di lei, ma la stava preparando con crudeltà chirurgica a diventare morte e carne bruciata. Erano di sicuro ignare di quel piano infame anche le due bimbe fatte esplodere nel mercato di Pitskum. Di loro, un commerciante sopravvissuto, ha detto: “Ho riconosciuto parte del tronco e i capelli di due bambine”. Non hanno trovato la morte nella loro armatura scintillante, le bimbe nigeriane. L’hanno trovata nel disegno delirante di un gruppo terroristico che ha scelto di sacrificare le loro vite perché potevano farle saltare in aria con l’inganno o, forse, perché il tronco dilaniato di una bambina è una propaganda di terrore e morte più efficace di quello di un adulto. Perché che i bambini funzionino in guerra come negli spot, è un dato di fatto. Che abbiano un biscotto o un kalashnikov in mano, l’effetto propaganda è assicurato. Che sorridano felici mentre la mamma spruzza il nuovo deodorante per la casa o giacciano sul pavimento dopo aver respirato il gas nervino, aiutano ad arrivare alla pancia della gente. A destare attenzione sul prodotto, specie quando quel prodotto si chiama guerra. E nulla come le foto di bambini dilaniati, giustiziati, con le facce deformate o atterrite in quell’attimo prima di morire serve, a seconda dei casi, ad inasprire un conflitto, a sensibilizzare, a terrorizzare. E più le guerre diventano mediatiche, più i bambini diventano pedine fondamentali per alimentare odio o indignare o suggerire condanne morali. Non è un caso che l’attentatore Coulibaly, prima di compiere la strage nel market kosher, avesse puntato all’asilo ebraico. Pare l’abbiano fermato un piccolo incidente mentre parcheggiava e l’intervento della povera agente di guardia alla materna, freddata con un colpo alla schiena. Se a Coulibaly non si fosse messo di traverso il destino, oggi la propaganda del terrore avrebbe il volto innocente dei bambini di Chatillon Montrouge, anziché dei quattro poveri clienti del market kosher. E’ invece riuscito l’attacco dei talebani alla scuola di Peshawar, centotrentadue studenti tra i 10 e i 18 anni morti e le immagini dei bambini insanguinati portatati via in braccio dai padri sui giornali e le tv di tutto il mondo.
Anche l’Isis, che di marketing del terrore se ne intende, non trascura l’impatto mediatico dei bambini. Difficile dimenticare l’immagine del figlio di un jihadista – un bambino di sette anni- che tiene tra le mani la testa decapitata del nemico, sorridendo fiero all’obiettivo del papà. Sembra il ritratto della complicità familiare, una specie di Mulino bianco macabro, uno spot che non puoi non guardare, come tutti gli spot che funzionano. Ma fanno parte di questo elenco osceno anche le foto dei bambini palestinesi, sul cui utilizzo per fini propagandistici infuria la polemica da anni. La Bbc e numerosi altri canali e siti internet hanno dimostrato come numerose foto di bambini morti sotto le bombe, vengano associate a stragi distinte, compiute in epoche e paesi diversi. Più volte i poveri bambini di Gaza erano in realtà poveri bambini iracheni o siriani o pachistani morti anni prima, in conflitti dimenticati. Questo non vuol dire che non muoiano bambini a Gaza, ma semplicemente che per Hamas o chiunque conosca il potere persuasivo di un corpicino martoriato, le vittime possono essere dei fake prestati da altre guerre, come gli sfondi taroccati di certi spot o la controfigura del testimonial famoso. Non è la vittima, è il racconto, quello che conta.
Infine, ci sono i bambini siriani, che sono un caso a parte. Anzi, per usare un linguaggio da pubblicitari, una (non) case history a parte. Ne sono morti undicimila dall’inizio della guerra. Cinque milioni e mezzo sono profughi, sotto le bombe, la neve, nella miseria, ignorati dal mondo. Ce ne sono tante di foto di bambini siriani dilaniati da esplosioni, freddati da kalashnikov, avvelenati dal gas, uccisi dalla fame, dal freddo, dalle malattie, ma con loro il marketing funziona poco. E non è colpa dei bambini siriani. Il loro strazio, povere creature, è tragicamente fotogenico . Il problema è il loro paese, la Siria, un prodotto con troppo poco appeal, uno di quei prodotti che al supermercato vengono infilati nell’ultimo scaffale, quello che non vede nessuno, accanto al sale grosso.