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Nove buoni motivi per andare dai parrucchieri cinesi

Confesso la mia colpa. Sono una di quelle donne sciagurate che va dai parrucchieri cinesi. E lo faccio spesso, quindi non c’è il semplice reato, c’è reiterazione. So già quel sarà la reazione delle sciure milanesi, degli xenofobi della messa in piega orientale, dei parrucchieri autoctoni. So già che mi augureranno un’alopecia a chiazze entro Natale. Eppure, incurante degli anatemi, vado ad elencare gli innumerevoli vantaggi che ravviso nel farmi fonare dai cinesi:

1) La velocità. I cinesi lavorano sulla quantità, ergo, varcata la soglia del loro negozio, spesso non si fa neanche in tempo a togliersi il berretto da neve che ci si ritrova già con la testa sotto al rubinetto e col balsamo sul pon pon. E questo sempre. Non importa se il negozio è pieno. Piuttosto ti lavano con lo shampoo a secco nel retrobottega, piuttosto staccano l’estintore dal muro e puntano alla nuca, ma in 25 minuti al massimo devi toglierti dalle balle con la piega fatta.

2) Non fanno moine. Non cercano di intortarti proponendoti shampoo per il colore anticrespo automassaggiante lucidante rinforzante anti doppiepunte. Nulla. Loro ti lavano con qualcosa che se non è il detergente per i cerchioni delle automobili poco ci manca e tanti saluti. Ed infatti, il trend del momento è andare dal parrucchiere cinese portandosi shampoo e balsamo da casa, quindi i furbi finiscono per risparmiare pure sulla materia prima e investire solo in aria da fon. Certo, è un po’ come andare al cinema e chiedere di mettere il dvd che ci si è portati dietro, ma almeno si va sul sicuro.

3) Sono bruschi. Farsi lavare la testa da un cinese che ha altre sette sciure in fila davanti alla porta è un’esperienza che va provata almeno una volta nella vita. Neanche Rocco Siffredi ha mai afferrato la testa di una donna con quella tempra. E non parliamo di quando passa al pettine per districare i capelli. Un cinese con un pettine in mano sarebbe capace di far confessare un leader dell’Isis ostaggio degli americani affetto da mutismo congenito.

4) Dai cinesi non ci sono riviste di gossip, numeri di Dipiù con la Laurito che addenta un babà in copertina, gli editoriali di Signorini sull’importanza della preghiera e del tiragraffi per i suoi gatti nella sua nuova vita. Sulla mensola di fronte a voi al massimo troverete delle boccette sinistre il cui contenuto potrebbe essere qualsiasi cosa, dal sangue di San Gennaro al diesel v power.

5) Lo so. Quando ti chiedono “Come vuoi capelli?”, per i cinesi esistono solo due opzioni: Camilla Raznovich e Maria Teresa Ruta. Ovvero: o lisci senza speranza o i boccoli con la piastra che fanno subito album di nozze. Spiegare che si desiderano pieghe alternative richiede trattative talvolta estenuanti, ma alla fine uscire da un parrucchiere cinese senza sembrare Tina Cipollari è possibile, ve lo giuro.

6) Mentre ti asciugano i capelli con phon che generalmente sputano l’aria della temperatura di una geyser delle solfatare di Pozzuoli, i cinesi solitamente conversano l’uno con l’altro nel dialetto del loro cantone ridacchiando a più riprese. Nessuno saprà mai se stanno facendo considerazioni sulla volubilità del tasso di scambio dello yen sui mercati europei o se ci stanno beatamente prendendo per il culo, ma il bello dei cinesi è questo: non hanno alcun interesse a capirti e a farsi capire.

7) Il prezzo. Con sette euro ti lavano, ti pettinano, ti asciugano e ti fanno arrivare al lavoro in orario. Con sette euro un parrucchiere italiano non ti spruzza manco la lacca sul ciuffo laterale.

8) Sono aperti sempre, in qualsiasi orario e non si fermano neanche il lunedì. Se la viglia di Natale, alle tre di notte , al quarto giro di poker vi si ammoscia la frangia, un cinese aperto in Viale Certosa lo trovate sicuro. E vi offre pure lo spumante. Magari un improbabile spumante Franciastorta, ma ve lo offre.

9) Ok, l’arredamento è quello che è. Pareti spugnate aragosta o viola, gatti portafortuna, extension che paiono più code di ratto che capelli, peli di uomo, pipistrello, Schifani e marmotta sul pavimento, foto di eroine manga pettinate come Luxuria e proposte di manicure sobrie tipo unghia fucsia con bordo laminato oro e un ritratto di Massimo Ferrero che esulta a bordocampo sull’unghia del mignolo destro. Però diciamolo. Con sei euro per una piega, saremmo pure disposti a fare noi un trompe l’oeil sul soffitto, mentre ci passano la piastra sul ciuffo.

Ed è per questo che ringrazio Putin a nome di tutte le donne che per la modica cifra di sei euro hanno vinto la loro dura battaglia contro il crespo. La coperta sulle spalle alla first lady cinese è nulla. Le parrucchiere cinesi meriterebbero l’usufrutto del Cremlino, altro che plaid.

Anticipazioni sul matrimonio Clooney/Amal

E niente. Credo che questa sia la verità definitiva, perchè è una soffiata attendibile che mi è arrivata ora:
Clooney si sposerà davvero nel palazzo storico a Venezia, poi ricevimento da Cipriani. Il tema dell’allestimento sarà “piume”. L’Agenzia che organizza le nozze è Lanza e Baucina.
D’Urso e Parodi, oggi c’avete da parlà, divertitevi.

Perché amiamo Andrea Pirlo

Ma io dico. Con tutte le ragioni per cadere in depressione di questo periodo – la fine delle vacanze, l’abbinamento crema-limone del gelato di Renzi, la crisi matrimoniale della Galanti, l’immagine della Picierno e Saviano che limonano- ci voleva pure l’infortunio di Andrea Pirlo. E che infortunio. Mica un legamento, mica la rotula, mica una caviglia. No. Proprio quando arriva il suo nemico storico Massimiliano Allegri e lui se ne sta lì, sornione, aspettando la prima occasione per dimostrargli che vecchio sarà lui e la sua stempiatura da geometra triste, gli parte il femore. Sì, il femore. Come ai vecchietti che cadono dalla scala mentre spalano la neve dal tetto. Ora, io non so se sia un problema d’età o se quest’allenatore gli porti una sfiga che l’ad della Malaisyan airline al confronto rischia di vincere il superenalotto, fatto sta che mi dovrò rassegnare ad un inizio di campionato senza Andrea Pirlo. E non solo io, ma tutta l’orda di donne che lo venerano come la sottoscritta per un’infinità di ragioni che gli uomini stentano a capire. O meglio. Lo venerano pure gli uomini, ma solo se gli parli del Pirlo calciatore. Quando provi a spiegare al tifoso che no, chi se ne frega dei suoi assist , ti piace proprio come uomo e l’unico suo passaggio che sogni quando lo vedi è quello delle posate mentre apparecchiate la tavola per voi due e i vostri sette figli, lui, il tifoso, ti guarda con aria interrogativa.

E allora ve lo spiego io perchè ci piace tanto Andrea Pirlo. Intanto, perchè Andrea Pirlo non va interpretato. Viviamo nell’epoca faticosa del “Cosa avrà voluto dire con quell’sms, con quel post, con quel tweet, con quell’emoticon, con quella faccetta” per cui è evidente che di fronte ad un uomo che ha la stessa espressione se gli finisce il mignolo nell’elica di un tritaprezzemolo o se trova Adriana Lima nello spogliatoio in intimo ghepardato, noi tendiamo a sentirci rassicurate. Non c’è nulla da capire, nella monoespressività di Pirlo. Non è un enigmatico, non nasconde sottotesti. E’ il re della retroguardia, non del retropensiero. Non finge, ma funge. Lo guardi e capisci che quell’espressione significa quello che vuoi tu. Quello che vuole il mister. Quello che vuole Pardo. Caressa dice: “Osservate Andrea Pirlo uscire dal cupo tunnel di San Siro con lo sguardo sgomento dell’alce nella tagliola mentre ode il rumore dei passi del cacciatore, perchè l’avversario è lì, nella sua divisa color cinabro” e magari Pirlo sta pensando che ha il boiler rotto da due giorni o che Caressa si fa di crack, ma mica protesta. Il “così è se vi pare” con Andrea Pirlo diventa “Così sono se mi parano o se faccio gol: sempre uguale”.
Ed è proprio per questo che Pirlo non piace solo alle donne ma pure agli sponsor. Con quella faccia lì, sta bene con tutto, come il nero, come il fard pesca, come Casini. Lo vedi con lo shampoo Fructis in mano e dopo quell’attimo in cui pensi “Gli è caduto il phon nella vasca all’ultimo risciacquo?” ti ricordi che no, è la sua espressione. Lo vedi che sponsorizza le portafinestra Drutex e dici “Oddio, non ha visto il vetro e l’ha preso pieno!”, ma poi ti ricordi che è la sua faccia standard. Lo vedi con Balotelli per Mediaset Premium e pensi “Oddio, guarda SuperMario come se lo volesse asfaltare col suv” e pensi che sì, per una volta la sua faccia è abbinata al sentimento giusto, ma è un caso.
Pirlo è credibile, sempre. Basti pensare che per Kellogg s è riuscito ad essere Dr Sorriso, lui che al confronto la Gioconda si sta sganasciando e testimonial del progetto “Ritratto della salute” per promuovere la frequentazione di luoghi sani, lui che frequenta lo spogliatoio della Juve. E’ uno solido, il buon Pirlo. Non per niente i suoi soprannomi sono “L’architetto”, “Mozart” mica El nino o er Pupone. E del resto, l’aria del calciatore non l’ha mai avuta. Mai avvistato col gel e la riga in mezzo, mai un pinocchietto e un borsello, mai una partita a beach volley a Miami con Bobo Vieri, mai una pizza con una velina. Lui, con quel capello selvaggio e la mascella spigolosa, sembra Riccardo Muti, mica Adrian Mutu. La vitalità nelle interviste è quella del calciatore medio, è vero, ma calciatore- brillante è un ossimoro tipo Minetti-elegante, Mogherini-carismatica, Tavecchio – raziocinante.
E anche per il suo futuro, Pirlo non immagina la seconda vita del calciatore tipico: niente ristoranti con più escort ai tavoli che posate. Niente linee di magliette truzze. Lui si dedicherà alla produzione di vini bio. Capito? Da calciatore a viticoltore. Se a questo aggiungiamo che è stato uno dei pochi calciatori con mogli ventennali al seguito capace di divorziare anzichè chiudersi in bagno con la doccia aperta mentre chatta con l’amante, voi capirete che noi donne non possiamo non amarlo. Non possiamo non intravedere del metaforico nelle sue caratteristiche tecniche: lento ma capace di spiazzare grazie ai rapidi movimenti di bacino. Grandioso nell’effetto MAGNUS. Non possiamo, noi donne, sentir parlare della sua maestria nelle verticalizzazioni senza immaginare le sue orizzontalizzazioni. Insomma, non possiamo non guardarlo con un’unica espressione, anche noi, come lui, ma di quelle affrante e inconsolabili, perchè da qualche mese abbiamo una certezza: neppure Andrea Pirlo ci ha insegnato cosa sia il fuorigioco, ma da quando si è fidanzato, ci ha spiegato bene cosa voglia dire sentirsi irrimediabilmente, drammaticamente fuori gioco.

La Petra e il suo cellulare

Benvenuti ad una nuova puntata dell’avvincente serie “La Petra e il suo cellulare”.

Riassunto delle precedenti puntate: la mia amica Petra, convinta di poter tener testa alla tecnologia, 20 anni fa si decide ad acquistare un cellulare. Del resto, e’ stata testimonial Tim su quella minchia di barca a vela con le altre due gnocche e quindi questa e’ materia sua, e’ l’inizio di un amore felice e duraturo, penserete voi. E invece, colpo di scena. Petra si applica, si impegna, prova a coltivare questo amore, dice spesso “cambierò” ma tra lei e il cellulare proprio non funziona.

Non vi sto a riassumete l’estenuante via crucis vissuta in questi anni di amicizia con lei, ma come già spiegato in passato, sappiate solo che farle una telefonata prevede una di queste possibilità e null’altro:

a) il telefono squilla a vuoto e sei ore dopo ti chiama dicendo che aveva il telefono scarico poi il figlio ha dato fuoco al comò e allora sono arrivati i pompieri e uno di loro intanto ha comprato la sua affettatrice per mortadella usata due volte e nel mentre registrava due puntate in radio e intervistava Mika.

B) risponde, ma dopo tre secondi di conversazione la deriva dei continenti provoca l’apertura di una faglia in viale zara, lei ci precipita dentro e cade la linea per le successive 24 ore.

C) stai per partorire un bel maschietto e la chiami per avvisarla. Il telefono e’ staccato. Quando arriva l’sms “l’utente è di nuovo disponibile” tuo figlio e’ al secondo divorzio.

D) se nelle chiamate manifesta lacune e latitanze, su whatsapp ha dei guizzi sorprendenti. Consumatrice compulsiva di emoticon, i suoi messaggi sono graffiti 2.0. Che so, ti deve dire: a che ora a cena domani sera!? E ti arriva un orologio a cucù, una pizza Margherita e il cielo stellato. Che finché il graffito e’ questo va pure bene. Capita però che ti mandi due mani giunte, un cerotto, una casetta col fumo dal comignolo, un pesce e una katana e tu dopo aver chiesto un parere a un traduttore, un semiologo, un esperto del linguaggio dei segni, uno psicologo e a Giorgio Mastrota, la chiami e le fai: scusa ma che volevi dire con la preghiera, il cerotto, la casa, la spigola e la katana? E lei tutta stizzita: ma come, non hai capito? Scusa ma non mi sento bene, ti va un sushi a casa mia?

Ecco, Petra e’ più o meno così. Però stasera si e’ superata. Stasera mi ha scritto dalla Sicilia su whatsapp. Io ho cominciato un simpatico botta e risposta. Poi mi cade l’occhio sulla sua foto profilo su whatsapp. Che cosa diavolo e’? La apro. Non capisco.

“Scusa Petra, che minchia di foto hai messo nel profilo?”.
“Chiuso per ferie”.
“Non su fb!”
“Ah la mia foto!”
“Non su Twitter. Qui, su whatsapp!”

Tutto tace. Momenti lunghi una vita. Sta scrivendo…. Cancella. Sta scrivendo…. Siamo al momento della verità.
“Oh, giuro, non so come c’è finita ‘sta foto qui, e’ una macchia sul parquet sotto al letto, la devo mandare al vecchio proprietario della mia nuova casa”.

Ecco. Noi che mettiamo foto del nostro culo o i tramonti a Formentera, lei come foto profilo ha un materasso, due poster di Nick Kamen del 91 sotto al letto e una macchia sul parquet. Come non amarla.

Quaranta ruggenti

Roaring forties. Quaranta ruggenti. Così chiamavano gli inglesi quelle latitudini dell’emisfero australe in cui i venti ruggivano e i velieri affrontavano le tempeste di Capo Horn. Che poi non erano i venti a ruggire. Erano i venti che passavano attraverso gli alberi della nave ad emettere quel ruggito. Pare che arrivati al cinquantesimo parallelo quel suono mutasse. Che diventasse più un grido. Mi piace pensarli così questi 40 anni. Ruggenti, tra gli alberi alti di un veliero un po’ ammaccato dai fortunali, ma pronto a impennarsi sulle onde più alte. Continua

eDreams e lo strano caso dei costi di gestione di Visa e Maestro

Dunque. Visto che tutti o quasi ci accingiamo a comprare voli per partire in vacanza, credo che i signori eDreams ( e le signore Visa&co) ci debbano delle spiegazioni. Una mia amica è andata sul loro sito per comprare un biglietto aereo Milano-Roma per il 2 settembre. Imposta il pagamento con Visa e il totale le viene 271 euro. A quel punto, per scrupolo, imposta il pagamento con Maestro e con grande sorpresa le viene fuori una cifra parecchio diversa: 92,50 euro. Insomma, più o meno 180 euro di differenza, mica bruscolini. Roba che a Roma ci vai altre due volte e ti fai pure il selfie col pilota. Chiede spiegazioni a eDreams su twitter. eDreams risponde , testuale, così: “Per ogni carta di credito o debito i costi di gestione sono diversi. Con Agos eDreams non paghi nessuna commissione.”. E tanti cari saluti. Capito? Visa ha 180 euro di costi di gestione in più rispetto a Maestro. Roba che gestire mezza giornata Claudia Galanti credo costi qualcosa in meno. Ma soprattutto: 180 euro me li chiami costi di gestione? Poi c’è la chicca. Con Agos non paghi costi di gestione. Agos è una revolving con taeg 17,80% . Che parlando come si mangia, vuol dire interessi alle stelle. Ergo la domanda ora è: chi fa il furbo? Visa? eDreams? Agos? Perché che qui ci sia un furbo è evidente, ma non si capisce bene chi. E che ci sia un pirla pure, solo che in questo caso è facilmente individuabile: il consumatore. Attendo spiegazioni serie e nel frattempo invito a segnalare alle associazione consumatori. E a prenotare a Gabicce mare, se le spiegazioni non sono esaurienti.

La piaga degli hashtag bimbominkia

Buongiorno amici, oggi volevo sottoporre alla vostra attenzione una questione drammatica della quale si parla troppo poco, ovvero l’utilizzo improprio e criminoso di quella moderna piaga denominata HASHTAG.
Ora. Va bene utilizzarli per associare un tweet o un post a un argomento specifico, ma mi volete spiegare cosa minchia significano le vagonate di hashtag a casaccio, quasi sempre rigorosamente in inglese, a mo’ di didascalia? Ma perché se metti una foto del tuo cane che piscia contro un albero su instagram, io sotto mi devo leggere ‪#‎cool‬ ‪#‎relaxday‬ ‪#‎fashion‬ ‪#‎summer‬ ‪#‎funtimes‬ ‪#‎happyday‬ e boiate varie? Non sarebbe meglio una didascalia modello titolo di quadro impressionista tipo “Cane che piscia su un albero”? Ma soprattutto. Una foto è una foto. Che sia di un mojito sul tavolo del bar o delle vostre chiappe che si rosolano al sole, non è che diventate più social-fighi se la infiocchettate con sintesi imbarazzanti e il prefisso insta, ‪#‎instantgood‬ ‪#‎instantmood‬ e ‪#‎instantdistaminchia‬ . E infine, se proprio dovete scomodare l’hashtag ‪#‎picoftheday‬, che ‘sta foto del giorno sia come minimo quella di un tizio che ferma un carro armato in Piazza Tienanmen, non la foto del vostro nuovo costume a fascia.
E daje su. Basta con ‘sti hashtag bimbominkia. ‪#‎grazie‬.

La finestra di fronte

Ieri sera succede questa cosa. Io vado a cena lasciando la macchina sotto la radio che è in una nota via milanese. Finita la cena a mezzanotte torno in taxi a riprendere la macchina e mentre pago mi volto a guardare il palazzo proprio di fronte alla sede di Radio Deejay. C’è la famosa finestra di fronte. Una portafinestra, a essere precisi. Dentro la casa è illuminata.
Penso: “To’ c’è un papà che gioca col bambino scalzo, ha i suoi piedi sulle sue spalle!”. Poi mi accorgo che il papà è nudo. Poi il bambino si alza e mi accorgo che il bambino è in realtà una bambina sui trent’anni. E infine mi accorgo che non stavano giocando ma trombando indisturbati. Intanto il pos non funziona e il pagamento va per le lunghe. (tra l’altro, i pos nei taxi sono sempre tirati fuori dal cruscotto con un certo fastidio, come se uno chiedesse di pagare con prodotti dell’orto). Mi rigiro e hanno cambiato posizione. Lei sta brucando dal tappeto. Poi si appoggia agli infissi della finestra per sentire se ci sono spifferi. Poi valuta la stabilità del tavolino. Poi si tira giù il vestitino nero, lui la segue e spariscono in qualche angolo della casa.
Nel frattempo il tassista può avermi addebitato 1250 euro sulla carta per due km di tratta e io non mi accorgo di nulla. Neanche lui s’è accorto di nulla. Mi saluta. “Grazie, è stato un piacere. “. Sì, loro però.”. Insomma, spegnetele ‘ste luci in salotto se non volete mandare la gente frustrata a casa.